Martedì, 28 Ottobre 2014 18:06

I 400 colpi. Cinquanta anni dopo

Scritto da  Gerardo

Sta circolando nelle benemerite sale cinematografiche d’essai una copia restaurata (dall’altrettanto benemerita Cineteca di Bologna) de ‘I 400 colpi’ (1959) di François Truffaut.
A cinquant’anni dalla visione di questa pellicola, il nostro Pino Picone ci manda una splendida memoria.
Buona lettura!




I 400 colpi. Cinquanta anni dopo

Ho visto ‘I 400 colpi’ per la prima volta, se la memoria non mi tradisce, nel 1964. Cinque anni dopo l’uscita ufficiale. Frequentavo a Empoli la Quinta Ginnasio al Liceo Virgilio, alla mia bella età di anni 16. Ero un lettore assiduo e maniacale di giornali. Ma non avevo un giornale fisso e non mi potevo permettere di acquistare un quotidiano tutti i giorni. Andavo a leggere ‘L’Unità’ presso le varie Case del Popolo che frequentavo (Certaldo, Castelfiorentino, Empoli). ‘La Nazione’ la leggevo nei bar e acquistavo il venerdì ‘Paese Sera’ (perché c’era il supplemento dei Libri) e la domenica ‘L’Avanti!’ (perché era fatto veramente bene: si chiamava ‘L’Avanti della Domenica’ ed aveva una cospicua parte dedicata alla Cultura). Allora il mio sogno era quello di diventare ‘Vice’. Vale a dire scrivere di cinema recensendo film minori su uno di questi quotidiani (ma non su ‘La Nazione’! anche se stimavo moltissimo Sergio Frosali) e firmarmi ‘Vice’. Ero conscio di non poter aspirare a raggiungere l’importanza di un Aggeo Savioli o di un Lino Miccichè.
Per farla breve, capitò in un cinema di Empoli (non ricordo più quale: se all’Excelsior o alla Perla. Ancora oggi questi locali sono in vita: hanno quindi mirabilmente resistito ai vari terremoti che hanno investito le sale cinematografiche italiane in questi 50 anni) proponessero ‘I 400 colpi’. Allora un film in pellicola aveva una vita molto più lunga. E’ plausibile un recupero in seconda visione di film di qualche anno prima.

Il film mi piacque moltissimo. Era di pomeriggio. Nella sala non c’erano molti spettatori. Ricordo che ero inquieto e più che seduto sulla poltrona, mi sembrava di stare sospeso a mezz’aria. Mi immedesimavo in Antoine Doinel/Jean Pierre Léaud. Anche se non potevo essere Antoine Doinel. Per tanti motivi: la provenienza sociale. Lui figlio di piccoli borghesi di una grande città, io figlio di contadini poveri (se non poverissimi), freschi mimmigrati dalla Sicilia. L’ambiente: Parigi contro la provincia toscana la più profonda. Anche l’esperienza del riformatorio: i miei tre anni nel Seminario Minore di Firenze (con tutto il male che, allora, pensavo di quell’ambiente) non erano affatto comparabili con il ‘Centro di osservazione per minori traviati’ toccato in sorte ad Antoine Doinel. Da escludere assolutamente qualsiasi paragone per la situazione famigliare (troppo a mio favore).

Allora che cosa mi legava ad Antoine Doinel? Credo, sostanzialmente, la ribellione. Avevo letto ‘Giovani al doppio gin’ di Harrison Salisbury e ‘Ragazzi delinquenti’ di Albert K. Cohen. Cercavo con frenesia informazioni sui ‘bluson noir’. Il mio personaggio di riferimento era Johnny Halliday e i suoi leggendari pantaloni di cuoio nero, più che James Dean (nonostante il cinema e il suo a me ben presente ‘Gioventù bruciata’ film idolatrato di Nicholas Ray del 1955). Inutile dire che, invece, il mio personale film cult di quei giorni (e di tanti altri a venire) era ‘Gioventù amore e rabbia’ (1962). Uno splendido film di Tony Richardson , tratto da un racconto di Alan Sillitoe. Secondo me, il ‘maratoneta’ (titolo del racconto e titolo originale del film era infatti ‘The Loneliness of the Long Distance Runner’) Colin Smith, interpretato da Tom Courtenay (altra fulgida quanto fugace stella nel firmamento della ribellione globale) era il fratello maggiore di Antoine Doinel e cinematograficamente la ‘Nouvelle Vague’ dava la mano al Free Cinema inglese. Supportavano questa atmosfera, naturalmente, film come ‘A' bout de souffle’ (Fino all’ultimo respiro), 1960, di Jean Luc Godard (con Truffaut autore del soggetto), ma anche ‘La notte brava’ (1959), di Mauro Bolognini, ispirato al pasoliniano ‘Ragazzi di Vita’ e interpretato significativamente, da due attori francesi, J.C. Brialy e L. Terzieff. Ancora significativamente coevi ‘Estate violenta’ (1959) di Valerio Zurlini; ‘Pickpocket’ (1959) di Robert Bresson; ‘Sabato sera, domenica mattina’ (1960) di Karel Reitz (tratto da un altro racconto di Alan Sillitoe); ‘Shadows’ (1959) di John Cassavetes. Apparentemente appartati e fuori dalla mischia ‘La dolce vita’ (1960) di Federico Fellini e ‘Rocco e i suoi fratelli’ (1960) di Luchino Visconti. Questo era il quadro (in quel fatidico, per me, 1964) di una sorta di internazionale della gioventù ribelle (comprendendovi cuccioli, fratelli minori fratelli un po’ più attempati, ma non tanto). Non è stravagante affermare che anche dentro il chiuso di quelle fumose sale cinematografiche (allora molto molto più popolate di oggi) si formavano i protagonisti di quella che sarà l’ultima vera rivoluzione del nostro tempo: quella del ’68.

Mi rendo conto di non aver parlato de ‘I 400 colpi’; di come Antoine Doinel e il suo amico René fanno il diavolo a quattro; del perché ‘I 400 colpi’ è ‘… un film intimista, ma che dà battaglia’ come ha scritto Ugo Casiraghi, altra mia stella personale nel popoloso cielo dei recensori di film. Ma questa è un’altra storia e se volete ne potremo riparlare.

Giuseppe Picone
San Gimignano, 28 ottobre 2014

Qui sotto, alcune foto.



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